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Economia

La qualità? L’asso nella nostra manica!

Martedì 10/04/2012 su Radio24 Lars Petterson, ad di IKEA Italia, commentando la decisione dell’impresa che amministra di spostare parte della produzione dall’Asia all’Italia commenta:  “la verità è che sull’Italia vogliamo investire di più. Stiamo molto attenti alle scelte logistico ambientali e abbiamo scelto questo paese perché abbiamo un’ottima esperienza con i fornitori e la loro qualità: hanno dimostrato di essere molto flessibili sui cambiamenti dei prodotti”, aggiungendo che “Per noi di Ikea la flessibilità del lavoro, l’articolo 18, per intenderci, non è un problema, quanto l’incertezza dei tempi della burocrazia e della politica”.

IKEA già ha un’ottima esperienza con il Nord Est, avendo come area prioritaria di approvvigionamento il Veneto (38% degli acquisti), seguito poi da Friuli (30%) e Lombardia (26%). In pratica l’8% totale degli approvvigionamenti del gruppo avviene in Italia, con la bilancia commerciale a favore dell’Italia (con 7% di acquisti), con le cucine a fare da padrone: una cucina su tre venduta da IKEA è fabbricata in Italia. IKEA insomma sta adottando la stessa strategia di rientro di molte industrie tedesche.

Come commentare? Nel caso di IKEA non si parla esattamente di “Made in Italy”: il design non è italiano e il prodotto non viene venduto come “Made in Italy”.

Si parla però di qualità “Made in Italy”, ovvero ciò che ci contraddistingue e ci ha sempre contraddistinto. IKEA stessa ce lo riconosce e ha investito in noi nonostante i problemi burocratici e politici. I produttori di automobili tedeschi ci riconoscono la stessa qualità e si affidano a noi per molti pezzi ad alta precisione. E in molti casi chi fornisce è un industria di dimensioni medio piccole.

Infastidisce un po’ leggere articoli che ci descrivono come i nuovi cinesi. Vero è che ora la manodopera asiatica costa di più ed è una scelta naturale per i “big” tornare in Europa: ora conviene pagare di più la manodopera piuttosto che avere prodotti fatti male e reclami da parte dei clienti. Però è anche vero che per la maggior parte la manodopera incide in modo marginale nei costi di produzione, entro il 10% circa.

C’è da chiedersi invece perché non si sia riusciti a dimostrare prima la qualità, ad ottimizzare i processi e a fermare l’emorragia.

Il problema è stato culturale: per un certo periodo, complici certi commercialisti e strategici, è stato meglio produrre a basso costo piuttosto che innovare, creando catastrofi nei distretti produttivi e, diciamolo, facendo il gioco degli altri. Si è guardato solo il breve periodo alla fine dei conti. Vero è che i costi erano infinitamente più bassi ma… quanti resi? Quanti prodotti ben al di sotto dei minimi standard qualitativi? Conveniva (forse) solo perché costava pochissimo produrre. Ma i costi logistici, la poca flessibilità data dai tempi di trasporto e dalle distanze ci sono sempre stati.

La strada resta quindi oggi la qualità attraverso l’innovazione, ricordandosi la lezione asiatica sulla delocalizzazione selvaggia: l’ottimizzazione del processo produttivo resta fondamentale, come resta fondamentale la necessità di essere sempre dinamici e non dare per scontate le situazioni di benessere. Il nostro capitale umano è di valore inestimabile e può fare più di cento industrie con manodopera a costi stracciati. Bisogna solo saperlo e, soprattutto, volerlo sfruttare come si deve.

La concorrenza cinese non è più una scusa per lamentarsi. Dobbiamo cercare altre scuse o, finalmente, ci mettiamo ad innovare e pretendere di più dai nostri politici?

Foto: IKEA sign by kaktuslampan via Flickr. CC attribution

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